Archivio Cavellini
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I CARBONI GEOMETRICI
Nel processo artistico di Guglielmo Achille Cavellini il superamento e la negazione divengono spesso, con una ciclica costanza, sistema non solo di elaborazione concettuale ma anche di ricostruzione formale.
Accadde anche quando, intorno al 1968, si mise a bruciare i legni delle opere precedenti che erano sfuggiti all’incassettamento, altra occasione questa che gli aveva fornito gli elementi di un’ulteriore formulazione linguistica.
Ne sortirono i carboni, superfici azzeranti e nello stesso tempo vibratili che fino ai primi Settanta vestirono e fecero da sfondo alle sue opere che, come per un vero e proprio effetto di purificazione, si spogliarono di qualsiasi richiamo nuovodadaista per giungere ad un territorio in cui la sostanza personale trovava finalmente il sopravvento.
Ci si buttò a capofitto, come d'altronde aveva fatto in ogni occasione in cui si era trovato per le mani un nuovo tessuto da applicare al suo desiderio di produrre interstizi durevoli tra sé ed il mondo.
Lo fece perdurando nelle citazioni ed omaggi alla costante delle forme degli autori che evidentemente gli parevano gemelli proprio in quella storia che si sforzava di superare, ma anche applicandosi alla sua qualità di pittore, anticipando un ritorno che di li a poco avrebbe pervaso una nascente generazione postmoderna.
Nacquero così quelli che, forse impropriamente, chiamò “carboni geometrici”, a cui trasmise la sua dedizione alla forma pittorica che tanta parte aveva avuto nella sua formazione.
Dicevamo impropriamente perché di euclideo c’è ben poco in quelle prove, e di costruttivo solo un rimando, un’ulteriore citazione.
C’è invece una scelta di trasformazione, un paradosso pittorico che si applica non più alla superficie ma alla forma oggettuale, in un certo senso alla scultura.
Per far ciò si allontanò definitivamente dal gesto per affidarsi al progetto. In questo si può trovare un’ulteriore assonanza generazionale, come al solito non un debito ma ancora un’intrusione in un contesto che proprio allora nasceva come forma esplicita, quella della “pittura oggettuale” sia estroflessa che di superficie.
D’altronde ad ogni passo sembra proprio questa la sua qualità migliore, cavalcare i fantasmi della contemporaneità artistica come fossero oggetti di cui appropriarsi, condurli al proprio uso di sistematizzatore dei processi temporali.
Fuori dalla parcellizzante teoria della costruzione di un’Enciclopedia personale formata dai frammenti di un’Enciclopedia generale di cui si sente in grado di governare i destini al di là delle strettoie che gli pone il tempo, compaiono queste nuove opere come un inno alla forma, una squillante distensione dei colori all’interno di una superficie scura, rugosa come mantenesse ancora la memoria delle opere da cui è stata generata.
Nella stesura sembra anche qui anticipare il segno di quella che sarà la sua stigmate
autostoricizzante: la scrittura.
In questo caso dice di sé come pittore, del grande sogno che è stato realizzarsi col lavoro altrui, di quanta fatica costò pretenderne la condizione, della liberazione infine che trovò alla scoperta di una materia personale, per cui più nessuno avrebbe potuto discutere di primogeniture.
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